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Professioni

La configurabilità dell’esercizio abusivo della professione tra apparenza qualificata e libertà delle attività non regolamentate

Avv. Francesco Cervellino

10/16/2025

L’evoluzione giurisprudenziale in materia di esercizio abusivo della professione offre una prospettiva di rilievo nella definizione dei limiti di liceità delle prestazioni tecnico-professionali rese da soggetti non iscritti ad albi o ordini. La sentenza della Corte di cassazione, Sezione quinta penale, n. 1374 del 2025, si inserisce nel solco tracciato dalle Sezioni Unite del 2012, riaffermando con rigore i principi che governano l’individuazione del perimetro applicativo dell’art. 348 del codice penale. Essa assume particolare significato con riferimento alla figura del tributarista, la cui attività, pur riconosciuta dalla legge n. 4 del 2013 come libera professione non ordinistica, rischia di interferire con ambiti riservati alle professioni contabili regolate dal d.lgs. n. 139 del 2005.

Il caso di specie trae origine dalla condotta di un soggetto che, privo di abilitazione e di iscrizione all’albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili, aveva per anni gestito la contabilità, la predisposizione delle dichiarazioni fiscali e gli adempimenti connessi di un’impresa individuale, presentandosi come professionista abilitato e curando persino gli aspetti previdenziali e assicurativi del personale dipendente. La Corte ha confermato la condanna per esercizio abusivo della professione, rilevando che l’attività svolta, per modalità, continuità, onerosità e organizzazione, aveva determinato l’apparenza oggettiva di un’attività professionale riservata agli iscritti all’albo dei commercialisti.

Il nucleo argomentativo della decisione risiede nell’adesione al principio, già espresso dalle Sezioni Unite nella pronuncia Cani (n. 11545/2012), secondo cui integra il reato di cui all’art. 348 cod. pen. non solo il compimento di atti singolarmente riservati a una professione, ma anche lo svolgimento sistematico di attività che, pur non esclusive, risultino univocamente riconducibili alla competenza specifica di essa, qualora la condotta, per continuità e organizzazione, generi nei terzi l’affidamento nella qualità professionale del soggetto agente. Si supera così l’approccio formalistico che limitava la rilevanza penale ai soli atti tipicamente riservati, abbracciando una concezione funzionale dell’offesa: è la lesione dell’interesse pubblico alla corretta regolamentazione delle attività professionali e alla tutela dell’affidamento dell’utenza che fonda l’antigiuridicità della condotta.

La Corte ha altresì escluso la tesi difensiva che invocava la libertà delle professioni non regolamentate di cui alla legge n. 4/2013. Tale disciplina, volta a garantire la trasparenza e la qualificazione dei soggetti operanti in settori privi di ordine, non legittima l’ingerenza in ambiti normativamente riservati. Laddove la prestazione travalichi l’assistenza meramente amministrativa o contabile e si estenda ad attività che, per contenuto tecnico e rilevanza giuridica, richiedono l’iscrizione ad un albo, la libertà professionale trova un limite insuperabile nella riserva di competenza. Ne deriva che l’esercizio di fatto di funzioni tipiche del commercialista – quali la tenuta dei libri contabili, la redazione delle dichiarazioni tributarie e la consulenza in materia di rapporti di lavoro – senza abilitazione integra la fattispecie incriminatrice, a prescindere dall’assenza di un danno patrimoniale o di un vantaggio economico specifico.

Un ulteriore profilo di interesse della decisione riguarda il rapporto tra l’esercizio abusivo e il delitto di truffa. La difesa aveva sostenuto che la falsa qualità professionale avrebbe rappresentato un mero mezzo fraudolento, assorbito dalla fattispecie di truffa. La Corte ha invece escluso l’assorbimento, valorizzando la diversità dei beni giuridici tutelati: la truffa protegge il patrimonio, mentre l’art. 348 cod. pen. tutela l’ordine pubblico professionale e la fiducia collettiva nell’esercizio qualificato delle attività regolamentate. I due reati possono pertanto concorrere, poiché l’artificio di presentarsi come professionista abilitato non esaurisce l’offesa, ma la duplica, ledendo l’interesse pubblico oltre che quello patrimoniale della vittima.

Sotto il profilo sistematico, la sentenza ribadisce il ruolo dell’elemento dell’“apparenza qualificata” quale discrimine tra attività libera e professione abusiva. La sussistenza del reato richiede che la condotta si svolga in modo tale da indurre terzi a ritenere il soggetto dotato del titolo abilitante, anche in assenza di un esplicito riferimento alla qualità. È, dunque, il contesto complessivo – continuità, organizzazione, compenso e pubblica spendita della qualifica – a fondare la tipicità penale, ponendo un argine alla proliferazione di figure para-professionali che, in assenza di un controllo deontologico o tecnico, possono generare confusione e pregiudizio per l’affidamento sociale.

La pronuncia in esame si pone così come un punto di equilibrio tra la libertà d’iniziativa economica e la tutela della funzione pubblica delle professioni ordinistiche. Essa riafferma che la demarcazione tra attività consentite e riservate non può essere affidata alla mera autodefinizione dell’operatore, ma deve ancorarsi a parametri oggettivi di contenuto, organizzazione e rappresentazione esterna dell’attività. La linea interpretativa che ne deriva tende a garantire la certezza del diritto e la protezione dell’utenza, riaffermando l’importanza dell’abilitazione come presidio di competenza, responsabilità e correttezza professionale.

La decisione contribuisce a delineare un perimetro più chiaro dell’art. 348 cod. pen. nell’era delle professioni ibride e digitali, in cui il confine tra consulenza libera e attività riservata si fa sempre più labile. L’attenzione della giurisprudenza verso l’apparenza sociale dell’attività e la tutela dell’interesse collettivo alla professionalità qualificata conferma la funzione sistemica della norma penale: non strumento di difesa corporativa, ma garanzia dell’affidabilità del mercato dei servizi professionali e della correttezza dei rapporti economici fondati su competenze certificate.

Lo stesso articolo anche su studiocervellino.it