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Lavoro

Patto di prova nullo: reintegra attenuata e nuovi standard di redazione dopo Cass. 24202/2025

Dott. Alessandro Cervellino

10/10/2025

Con la sentenza n. 24202 del 29 agosto 2025 (ud. 11 giugno 2025), la Corte di cassazione è tornata ad affrontare il tema della validità del patto di prova, precisando – in modo particolarmente rilevante per la prassi delle risorse umane – quali siano i requisiti minimi di determinatezza della clausola e quali le conseguenze, anche in termini di tutela, in caso di nullità. La decisione si colloca nel solco della recente sentenza della Corte costituzionale n. 128 del 2024, che ha ridefinito i criteri di applicazione della reintegra attenuata nei rapporti soggetti al regime delle tutele crescenti previsto dal D.Lgs. 23/2015.

Nel caso esaminato, una lavoratrice, assunta come quadro, era stata licenziata per esito negativo della prova. La Corte d’appello aveva ritenuto nullo il patto per indeterminatezza delle mansioni e aveva annullato il licenziamento. La società aveva proposto ricorso per Cassazione, sostenendo la sufficienza del rinvio alla declaratoria del CCNL e l’idoneità delle comunicazioni precontrattuali (in particolare alcune e-mail) a specificare il contenuto della prova. La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la nullità del patto e chiarendo che il semplice rinvio alla categoria contrattuale o alla declaratoria collettiva non consente di individuare le attività oggetto dell’esperimento. Né possono supplire documenti esterni, quali e-mail o job description, se non espressamente richiamati nel contratto.

Secondo la Corte, la funzione del patto di prova è quella di consentire a entrambe le parti di verificare la reciproca convenienza del rapporto attraverso l’esperimento di specifiche mansioni. Di conseguenza, la clausola deve indicare con sufficiente precisione le attività caratteristiche sulle quali si fonda la valutazione. È ammissibile un rinvio per relationem a fonti collettive, ma solo se questo rinvio permette di comprendere, in concreto, cosa si andrà a verificare. Una clausola che si limiti a indicare la qualifica o il livello, senza ulteriori specificazioni, risulta priva di oggetto e, dunque, nulla ai sensi dell’art. 1418 c.c. in combinato con l’art. 2096 c.c.

L’aspetto di maggiore impatto pratico della decisione riguarda però le conseguenze della nullità. Quando il patto di prova è invalido, il rapporto si considera definitivo sin dall’inizio: viene meno la facoltà di recesso ad nutum prevista dall’art. 2096, e il licenziamento intimato “per mancato superamento della prova” deve essere trattato come un ordinario licenziamento soggetto all’obbligo di giustificazione. In passato, la giurisprudenza tendeva a ritenere applicabile la tutela meramente indennitaria prevista dall’art. 3, comma 1, del D.Lgs. 23/2015 per i rapporti a tutele crescenti, richiamando la natura “formale” del vizio del patto.

Dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 128 del 2024, tuttavia, il quadro cambia radicalmente. La Consulta ha infatti chiarito che, quando il licenziamento è fondato su un “fatto inesistente”, il giudice deve applicare la reintegrazione attenuata prevista dal comma 2 dell’art. 3 del D.Lgs. 23/2015. Nel caso del patto di prova nullo, il “fatto” del mancato superamento non può dirsi esistente, perché la prova stessa non esiste giuridicamente: manca il presupposto del recesso. La Cassazione, in linea con questo nuovo orientamento, ha riconosciuto che la sanzione applicabile è la reintegra attenuata, accompagnata da un risarcimento commisurato all’ultima retribuzione utile ai fini del TFR, con un limite massimo di dodici mensilità e detrazione dell’aliunde perceptum, secondo i criteri già fissati da Cass. 3824/2022.

La pronuncia impone dunque un salto di qualità nella redazione dei contratti di assunzione. La Cassazione non chiede un eccesso di formalismo, ma richiede che la clausola di prova sia redatta in modo da rendere effettivamente individuabili le mansioni da testare. Una descrizione troppo generica o meramente riproduttiva della qualifica professionale non è sufficiente; occorre un riferimento concreto alle attività che il lavoratore dovrà svolgere e alle competenze che si intendono verificare. Ciò vale in particolare per i ruoli direttivi o ad alto contenuto intellettuale, dove la genericità delle formule (“responsabile ufficio”, “capo servizio”, “coordinatore area”) è spesso frutto di prassi consolidate ma rischiose.

Un esempio utile può essere quello di un “Responsabile Stile Uomo”: non basta indicare la categoria contrattuale o il livello retributivo. La clausola dovrebbe invece richiamare, anche sinteticamente, le funzioni principali – ideazione e coordinamento delle collezioni, definizione delle linee guida stilistiche, interfaccia con il merchandising e il sourcing – consentendo di comprendere quali aspetti saranno oggetto dell’esperimento. Questo approccio non appesantisce il contratto ma ne rafforza la validità, preservando la libertà di recesso nei limiti consentiti dall’art. 2096 c.c.

La sentenza offre anche un richiamo importante alla gestione documentale. Le job description, le e-mail precontrattuali, i piani di onboarding o di performance possono certamente aiutare a chiarire le aspettative aziendali, ma assumono rilievo giuridico solo se vengono richiamati espressamente nel testo contrattuale come allegati “parte integrante”. Diversamente, restano irrilevanti ai fini della validità del patto e non possono essere utilizzati in giudizio per colmare le lacune del contratto.

Sul piano operativo, per le imprese e i consulenti del lavoro ciò significa rivedere i modelli di lettera di assunzione, assicurandosi che il patto di prova contenga almeno una sintetica ma concreta descrizione delle attività e delle competenze oggetto di valutazione. È opportuno che il rinvio al CCNL, se presente, sia integrato da un richiamo alle peculiarità del ruolo specifico. In caso di utilizzo di documenti esterni, questi devono essere allegati e firmati, evitando qualsiasi ambiguità. Inoltre, pur non essendo obbligatorio per legge, è consigliabile motivare il recesso in prova: una comunicazione che descriva in modo chiaro le ragioni della valutazione negativa costituisce un elemento di trasparenza e può avere un significativo valore probatorio in caso di contenzioso.

Dal punto di vista difensivo, la decisione della Cassazione rende più difficile per il datore di lavoro sostenere la legittimità di un recesso “in prova” fondato su clausole standard o precompilate. Laddove si ravvisi un patto di prova nullo, il licenziamento rischia di sfociare nella reintegra attenuata, con obbligo di ripristino del rapporto e pagamento delle retribuzioni maturate entro il limite di dodici mensilità. Per contenere il danno economico, diventa quindi essenziale documentare eventuali redditi percepiti dal lavoratore dopo il licenziamento (aliunde perceptum) e curare la gestione probatoria del caso.

In prospettiva, la Cass. 24202/2025 non è soltanto una decisione di legittimità, ma un vero monito operativo. Le imprese sono chiamate a superare modelli contrattuali standardizzati e a considerare il patto di prova come una clausola da progettare con attenzione, calibrata sulle effettive caratteristiche del ruolo. Una maggiore precisione nella fase di assunzione non solo riduce il rischio di contenzioso e di reintegra, ma migliora la gestione del periodo di prova come strumento di selezione e valutazione delle risorse.

La Cassazione ribadisce un principio tanto semplice quanto spesso trascurato: il patto di prova deve dire concretamente che cosa si prova. Se manca questa indicazione, la clausola è nulla, la prova non esiste, e il licenziamento che su di essa si fonda diventa illegittimo. Dopo la svolta costituzionale del 2024, la conseguenza non è più soltanto un’indennità economica, ma la reintegra attenuata del lavoratore. Per i datori di lavoro, la revisione dei modelli contrattuali non è più una buona prassi, ma una necessità giuridica.