
Lavoro
Fedeltà e concorrenza nel rapporto di lavoro: limiti del licenziamento e nullità del patto eccessivo
Dott. Alessandro Cervellino
11/11/2025

Nota a Corte d’Appello di Roma, sentenza n. 3372 del 25 ottobre 2025
1. Introduzione: il contesto e le questioni di diritto
La sentenza n. 3372/2025 della Corte d’Appello di Roma offre un’importante occasione di riflessione sui rapporti tra obbligo di fedeltà (art. 2105 c.c.) e patto di non concorrenza (art. 2125 c.c.), due istituti che delimitano, in fasi diverse del rapporto di lavoro, la libertà professionale del dipendente.
Il caso riguardava un licenziamento disciplinare per giusta causa, intimato ad un dipendente che, durante il rapporto di lavoro, ricopriva la carica di amministratore di un’altra società operante in un settore affine. Contestualmente, nel contratto individuale era stato sottoscritto un patto di non concorrenza post contrattuale, di durata triennale e con estensione territoriale all’intera Europa.
La Corte capitolina, riformando la decisione di primo grado, ha affrontato congiuntamente i due profili, delineando i confini tra fedeltà dovuta in costanza di rapporto e limitazioni alla libertà lavorativa dopo la cessazione del rapporto, con esiti significativi per la prassi aziendale.
2. Il principio di fedeltà e i limiti del potere disciplinare
L’art. 2105 c.c. impone al prestatore di lavoro di non trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né di divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa. La giurisprudenza ha da tempo chiarito che l’obbligo di fedeltà non vieta al lavoratore la mera partecipazione ad attività esterne, ma soltanto quelle concretamente idonee a ledere l’interesse economico o l’immagine dell’azienda (Cass. n. 30985/2018; Cass. n. 21172/2021).
Nel caso in esame, il datore di lavoro aveva contestato al dipendente di aver svolto attività concorrenziale in qualità di amministratore di un’altra società. Tuttavia, la Corte ha accertato che:
la società datrice era perfettamente a conoscenza della carica societaria già al momento dell’assunzione, essendo tale posizione emersa in rapporti commerciali pregressi;
non era stata provata alcuna effettiva attività concorrenziale, poiché le operazioni contestate (noleggio di mezzi e attrezzature) erano avvenute in favore della stessa azienda datrice e con modalità trasparenti e fatturate;
la contestazione disciplinare risultava generica e priva di specificità, in violazione dell’art. 2, comma 2, L. 604/1966, e non consentiva al lavoratore un’effettiva difesa.
Da ciò la Corte ha tratto la conclusione che la mera titolarità di una carica societaria in potenziale conflitto non integra, di per sé, violazione dell’obbligo di fedeltà, se non accompagnata da condotte concrete di concorrenza effettiva e dannosa.
In assenza di tale prova, il licenziamento per giusta causa è illegittimo e comporta, ai sensi dell’art. 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015, la reintegrazione del lavoratore e il pagamento di un’indennità risarcitoria pari a dodici mensilità, oltre ai contributi previdenziali.
3. Il patto di non concorrenza: limiti di validità
Sul secondo fronte, la Corte ha esaminato il patto di non concorrenza contenuto nel contratto di lavoro, avente durata triennale e ambito territoriale esteso all’Italia e a tutta l’Europa.
Richiamando la costante giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 10062/1994; Cass. n. 9256/2025), la sentenza ribadisce che il patto è valido solo se rispetta i limiti di oggetto, tempo e luogo previsti dall’art. 2125 c.c. e se consente al lavoratore di mantenere un margine di attività idoneo a procurargli un reddito adeguato alle esigenze di vita proprie e della famiglia.
Nel caso concreto, l’accordo:
precludeva qualsiasi rapporto professionale con imprese o clienti del settore elettrico e delle infrastrutture, senza distinzione tra ruoli o funzioni;
estendeva il divieto all’intero territorio europeo;
prevedeva un corrispettivo annuo di euro 15.000, ritenuto inadeguato rispetto alla gravità delle restrizioni imposte.
La Corte ha pertanto accertato che un simile vincolo svuotava di contenuto la libertà professionale del lavoratore, impedendogli di esercitare qualsiasi attività coerente con la propria formazione e competenza.
Ne ha conseguentemente dichiarato la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., precisando che la nullità si verifica ogniqualvolta il datore, con il patto, miri di fatto a impedire qualsiasi occupazione compatibile con il background professionale del lavoratore.
4. La non necessità della doppia sottoscrizione ex art. 1341 c.c.
Un ulteriore profilo affrontato dalla Corte riguarda la pretesa nullità del patto per mancanza di doppia sottoscrizione. Il Collegio ha escluso la necessità dell’approvazione specifica ex art. 1341, comma 2, c.c., osservando che il contratto in esame era intuitu personae, redatto per un singolo rapporto e non mediante moduli o formulari seriali.
Ne consegue che il patto di non concorrenza, pur inserito nel contratto di lavoro, non è una condizione generale di contratto, ma una clausola negoziata e personalizzata, sottratta alla disciplina sulle clausole vessatorie.
5. Il bilanciamento tra libertà professionale e tutela dell’impresa
La sentenza in commento offre un equilibrato bilanciamento tra due esigenze contrapposte:
da un lato, la tutela dell’affidamento e del patrimonio aziendale, che giustifica la previsione di vincoli di fedeltà e di non concorrenza;
dall’altro, la libertà lavorativa del dipendente garantita dall’art. 4 Cost., che non può essere compressa in modo tale da precludere qualsiasi possibilità di impiego nel settore di appartenenza.
In quest’ottica, la Corte ribadisce che:
il vincolo fiduciario può dirsi realmente compromesso solo in presenza di comportamenti oggettivamente lesivi e non di mere potenzialità di conflitto;
il patto di non concorrenza deve essere calibrato su misura, limitato nel tempo (massimo tre anni per i lavoratori non dirigenti), nello spazio e nell’oggetto, e sostenuto da un corrispettivo proporzionato al sacrificio imposto.
6. Implicazioni operative per datori e professionisti
Per le imprese, la decisione rappresenta un monito sulla necessità di precisione e proporzionalità:
in sede di contestazione disciplinare, occorre descrivere i fatti in modo puntuale, indicando l’effettiva attività concorrenziale e le circostanze temporali e materiali in cui si è verificata;
nella redazione dei patti di non concorrenza, è essenziale delimitare chiaramente l’ambito territoriale e merceologico, evitando formulazioni onnicomprensive o geograficamente eccessive, che rischiano la nullità;
il corrispettivo economico deve essere commisurato all’effettiva restrizione: la giurisprudenza ritiene inadeguati importi forfettari che non compensino realisticamente la perdita di opportunità lavorative.
Per i consulenti del lavoro e i professionisti della contrattualistica, la pronuncia impone una revisione attenta delle clausole standard: l’uso di formulari precostituiti, con riferimenti generici all’“Europa intera” o a “tutti i concorrenti attuali o futuri”, non regge più al vaglio di validità.
7. Conclusione: verso un equilibrio tra fiducia e libertà
La sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 3372/2025 segna un punto fermo nella giurisprudenza in materia di concorrenza del lavoratore.
Essa distingue chiaramente tra la violazione dell’obbligo di fedeltà, che richiede la prova di un’attività realmente concorrenziale, e la validità del patto di non concorrenza, che postula un equilibrio concreto tra tutela dell’impresa e libertà professionale del prestatore.
In sintesi:
il licenziamento disciplinare è illegittimo se fondato su sospetti o su ruoli formali non accompagnati da condotte lesive;
il patto di non concorrenza è nullo se impedisce al lavoratore di utilizzare il proprio bagaglio professionale per un periodo eccessivamente ampio, senza adeguata compensazione.
Ne emerge un principio di fondo coerente con la più recente evoluzione della giurisprudenza del lavoro:
la fedeltà non può diventare subordinazione permanente e la tutela dell’impresa non può trasformarsi in preclusione della libertà lavorativa.


