
Lavoro
La rilevanza disciplinare delle condotte extralavorative lesive della dignità personale nel rapporto di lavoro subordinato. Cassazione 32952/2025
Avv. Francesco Cervellino
12/23/2025

Nel sistema giuslavoristico italiano, il tema della rilevanza disciplinare delle condotte extralavorative del prestatore di lavoro continua a rappresentare un terreno di confronto particolarmente delicato, in quanto si colloca all’intersezione tra autonomia privata, tutela della persona e salvaguardia dell’interesse organizzativo del datore di lavoro. Il provvedimento n. 32952 del 2025 si inserisce in tale quadro con un significativo contributo interpretativo, chiarendo i confini applicativi della nozione di giusta causa di licenziamento in relazione a comportamenti penalmente rilevanti, posti in essere al di fuori dell’ambiente lavorativo, ma idonei a incidere sul vincolo fiduciario.
L’inquadramento generale della questione muove dal principio, di matrice codicistica e costituzionale, secondo cui il rapporto di lavoro subordinato non si esaurisce nello scambio sinallagmatico tra prestazione e retribuzione, ma implica un complesso di obblighi accessori improntati a correttezza e buona fede. In tale prospettiva, la nozione di giusta causa assume una valenza legale, non riducibile a tipizzazioni contrattuali rigide, e richiede una valutazione in concreto dell’idoneità della condotta a compromettere irreversibilmente la fiducia alla base del rapporto. I contratti collettivi, pur svolgendo una funzione orientativa, non possono comprimere l’operatività della clausola generale, la quale resta affidata al giudizio di proporzionalità e adeguatezza rispetto alla gravità del fatto.
Alla luce di tali premesse, il provvedimento in esame affronta il nodo interpretativo relativo alla possibilità di ricondurre nell’alveo disciplinare fatti di violenza e sopraffazione realizzati in ambito familiare o sociale. La decisione valorizza un orientamento ormai consolidato, secondo cui anche la condotta extralavorativa può assumere rilievo disciplinare qualora sia suscettibile di ledere interessi morali o materiali del datore di lavoro o di minare l’affidamento sulla futura correttezza dell’adempimento. In questa prospettiva, il disvalore non risiede nel mero dato spaziale della commissione del fatto, bensì nella sua attitudine a riflettersi sul rapporto, specie quando le mansioni richiedano contatto con il pubblico, autocontrollo e rispetto della dignità altrui.
La pronuncia censura un’impostazione interpretativa eccessivamente restrittiva, che tende a confinare la tutela della dignità della persona entro i limiti fisici del luogo di lavoro. Una simile lettura, secondo il ragionamento accolto, risulta priva di appiglio testuale e sistematico, oltre a essere in contrasto con la centralità costituzionale del valore della dignità umana. Quest’ultima, infatti, non può essere segmentata in base ai contesti di manifestazione della condotta, poiché atti di violenza abituale, pur maturati in ambito privato, rivelano un habitus comportamentale incompatibile con le esigenze di corretto svolgimento della prestazione.
Particolarmente rilevante appare il richiamo alla funzione ermeneutica delle clausole collettive che sanzionano comportamenti lesivi della dignità personale. Tali previsioni, secondo l’impostazione accolta, non devono essere lette come fattispecie chiuse, ma come espressione di una scala valoriale condivisa dalle parti sociali, destinata a orientare il giudice nel riempimento della clausola generale. Ne discende che l’assenza di un esplicito riferimento al luogo di lavoro impedisce di circoscrivere aprioristicamente l’ambito applicativo della norma, dovendosi invece procedere a una valutazione complessiva delle implicazioni della condotta sul rapporto fiduciario.
Sotto il profilo sistematico, il provvedimento rafforza l’idea di un diritto disciplinare del lavoro sempre più sensibile alla dimensione personalistica del rapporto. La condanna penale irrevocabile per fatti caratterizzati da violenza non sporadica costituisce, in tale ottica, un indice oggettivo di gravità, idoneo a fondare il giudizio di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, senza che sia necessario dimostrare un danno attuale all’immagine datoriale. Ciò che rileva è la prognosi negativa sulla capacità del lavoratore di conformare il proprio comportamento ai canoni di correttezza e rispetto richiesti dall’organizzazione.
La decisione in esame contribuisce a delineare un equilibrio più avanzato tra sfera privata del lavoratore e tutela dell’interesse datoriale, riaffermando che la dignità della persona costituisce un valore unitario e indivisibile. Le implicazioni pratiche di tale impostazione sono rilevanti, poiché impongono agli interpreti e agli operatori di superare letture formalistiche e di adottare un approccio sostanzialistico, capace di cogliere il significato complessivo della condotta rispetto al contesto lavorativo. In prospettiva, si apre uno spazio per una più coerente integrazione tra diritto del lavoro e principi costituzionali, nella consapevolezza che la fiducia, quale presupposto essenziale del rapporto subordinato, può essere compromessa anche da comportamenti che, pur estranei al luogo di lavoro, risultino radicalmente incompatibili con i valori fondamentali dell’ordinamento .
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