Diritto di Famiglia

La quota del trattamento di fine rapporto nel sistema dell’assegno divorzile: presupposti, automatismi e solidarietà post-matrimoniale. Cassazione 32910/2025

Avv. Francesco Cervellino

12/22/2025

Nel sistema del diritto di famiglia, la disciplina dell’assegno divorzile rappresenta uno dei punti di maggiore complessità interpretativa, in quanto si colloca all’intersezione tra autonomia individuale, autoresponsabilità economica e persistenza di obblighi solidaristici derivanti dal pregresso vincolo coniugale. Il quadro normativo di riferimento è delineato dalla legislazione sullo scioglimento e sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio, che subordina il riconoscimento dell’assegno alla verifica dell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. In tale contesto, assume particolare rilievo la previsione che riconosce, in presenza di assegno divorzile, il diritto a una quota del trattamento di fine rapporto maturato dall’altro coniuge, istituto che riflette una concezione evolutiva della solidarietà post-matrimoniale.

L’assetto normativo, come interpretato dalla giurisprudenza più recente, si fonda su una lettura unitaria dell’assegno divorzile, ormai definitivamente svincolata dal parametro del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Il superamento di tale criterio ha comportato il riconoscimento di una funzione complessa dell’assegno, nella quale convivono profili assistenziali, compensativi e perequativi. L’assegno non mira a riprodurre assetti economici pregressi, ma a rimuovere gli squilibri che risultino non colmabili attraverso l’esercizio dell’autonomia individuale, valutata in concreto alla luce delle condizioni personali, professionali e sociali dell’istante.

In questa prospettiva, l’accertamento della non autosufficienza economica non si esaurisce in una verifica astratta della capacità lavorativa, ma richiede una valutazione effettiva delle possibilità di inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro. L’età, lo stato di salute, la storia professionale e il contesto territoriale assumono un rilievo decisivo, così come l’impegno concretamente profuso dal coniuge economicamente più debole per conseguire redditi propri, anche se modesti o discontinui. Il principio di autoresponsabilità, pur centrale nell’assetto post-coniugale, non opera in modo isolato, ma si coordina con il principio di solidarietà, che continua a proiettare i suoi effetti anche dopo la dissoluzione del vincolo matrimoniale.

La disciplina della quota del trattamento di fine rapporto si inserisce coerentemente in tale quadro. Il legislatore ha individuato presupposti tassativi per l’attribuzione di tale diritto, individuati nel passaggio in giudicato della pronuncia di divorzio, nel mancato passaggio a nuove nozze del richiedente e nella titolarità di un assegno divorzile. L’automatismo che ne deriva non è il frutto di una scelta casuale, ma risponde alla volontà di garantire una partecipazione, seppur differita, alle risorse economiche maturate nel corso del rapporto matrimoniale e lavorativo.

La questione più dibattuta riguarda la possibilità di subordinare il riconoscimento della quota del trattamento di fine rapporto alla specifica funzione attribuita all’assegno divorzile. Una lettura restrittiva, che limiti tale diritto ai soli casi di assegno con funzione compensativa o perequativa, è stata ritenuta incompatibile con la lettera e con la ratio della disciplina. L’assegno divorzile, pur potendo assumere differenti “curvature” funzionali, resta ancorato a un presupposto unitario: la mancanza di mezzi adeguati e l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. La titolarità dell’assegno costituisce, pertanto, l’unico elemento rilevante ai fini dell’accesso alla quota del trattamento di fine rapporto.

Sotto il profilo sistematico, tale impostazione valorizza la natura del trattamento di fine rapporto quale forma di retribuzione differita. Le somme che lo compongono maturano nel tempo e sono, almeno in parte, il risultato di un’organizzazione familiare che ha consentito a uno dei coniugi di dedicarsi in modo prevalente all’attività lavorativa, beneficiando del contributo, anche indiretto, dell’altro. In questa chiave, la partecipazione del coniuge divorziato a una quota dell’indennità non rappresenta un’indebita compressione del diritto di proprietà, ma l’attuazione di un principio di equità sostanziale, volto a redistribuire una ricchezza formatasi durante la vita coniugale.

L’automatismo previsto dalla legge risponde, inoltre, a esigenze di certezza applicativa e di uniformità di trattamento. Introdurre distinzioni legate alla funzione concretamente riconosciuta all’assegno significherebbe attribuire al giudice un potere selettivo non previsto dall’ordinamento, con il rischio di soluzioni disomogenee e di un indebito arretramento della tutela del coniuge più debole. La scelta legislativa appare, invece, coerente con una concezione della solidarietà che non si esaurisce nell’erogazione periodica dell’assegno, ma si estende alla ripartizione di risorse patrimoniali maturate in un arco temporale più ampio.

La disciplina della quota del trattamento di fine rapporto conferma la natura unitaria dell’assegno divorzile e rafforza il ruolo della solidarietà post-matrimoniale come principio ordinante del sistema. L’automatica spettanza della quota in presenza dei presupposti legali non costituisce un’anomalia, ma l’espressione di una logica redistributiva che riconosce valore giuridico alla collaborazione familiare e alle scelte condivise compiute nel corso del matrimonio. Tale impostazione offre un punto di equilibrio tra autoresponsabilità e protezione, assicurando una tutela effettiva e coerente con i valori costituzionali di uguaglianza sostanziale e solidarietà.

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