Diritto di Famiglia

La molestia digitale tra libertà comunicativa e tutela della quiete privata: riflessioni a margine della sentenza n. 32770/2025 della Corte di cassazione

Avv. Francesco Cervellino

10/21/2025

La progressiva digitalizzazione dei rapporti interpersonali ha imposto al diritto penale un ripensamento dei confini della libertà comunicativa, in particolare quando l’uso dei mezzi elettronici travalica la soglia del lecito e incide sulla quiete psicologica della persona. In questo scenario, la sentenza n. 32770 del 3 ottobre 2025 della Corte di cassazione assume rilievo paradigmatico, poiché chiarisce che il reato di molestia o disturbo alle persone (art. 660 cod. pen.) può configurarsi anche in assenza di contenuti offensivi, quando la condotta comunicativa si manifesti come insistente, petulante e non gradita, persino se il destinatario dispone di strumenti tecnici per bloccarla. Tale approdo segna un punto di svolta nell’adattamento della norma incriminatrice alle nuove forme di interazione digitale, conferendo centralità all’effetto disturbante della comunicazione, più che al suo contenuto semantico.

La vicenda trae origine dal comportamento di un soggetto che, dopo la cessazione di una relazione sentimentale, aveva reiteratamente contattato l’ex partner tramite telefonate e messaggi nel breve arco di venti giorni. I giudici di merito avevano ritenuto integrato il reato di molestia, in quanto la condotta risultava connotata da petulanza e interferenza sgradevole nella sfera privata altrui. Nel rigettare il ricorso, la Corte di cassazione ha ribadito che la molestia può essere integrata anche da una sola azione purché ispirata da un motivo biasimevole o da petulanza, precisando che l’elemento rilevante non è la possibilità della vittima di interrompere la comunicazione, ma il carattere invasivo del mezzo impiegato. Tale interpretazione, fondata su un consolidato orientamento giurisprudenziale, afferma che l’azione perturbatrice è già perfezionata nel momento in cui si realizza l’intrusione nella sfera personale, a nulla rilevando la facoltà successiva di bloccare il mittente.

Il dictum della Suprema Corte si innesta in un filone esegetico che ha progressivamente ampliato la portata applicativa dell’art. 660 cod. pen. in relazione ai mezzi di comunicazione elettronica, superando la concezione tradizionale del disturbo come evento fisicamente percepibile. Già precedenti decisioni avevano riconosciuto la rilevanza penale dell’invio reiterato di messaggi o chiamate, anche prive di contenuti minacciosi, quando idonei a turbare la serenità privata. La sentenza in commento, tuttavia, compie un passo ulteriore, negando che la possibilità di silenziare o bloccare l’utenza dell’agente possa escludere l’antigiuridicità della condotta. In tal modo, la Corte trasferisce il baricentro della tutela dall’attività reattiva della vittima all’obbligo di astensione dell’autore, sancendo che la responsabilità non può essere neutralizzata dall’esistenza di strumenti tecnici di autodifesa. Si afferma così un principio di civiltà giuridica coerente con l’evoluzione del diritto alla privacy e con la protezione della dignità relazionale nella società digitale.

Dal punto di vista dogmatico, la decisione offre spunti di rilievo in ordine alla struttura del dolo e all’oggettività giuridica del reato. La Corte ribadisce che l’elemento soggettivo consiste nella coscienza e volontà di tenere una condotta consapevolmente idonea a disturbare, indipendentemente dalle motivazioni personali, come il desiderio di recuperare un legame affettivo. L’oggetto della tutela, pur restando formalmente la tranquillità pubblica, riceve una protezione riflessa nella quiete individuale, la cui lesione è presupposto dell’offesa all’ordine pubblico. Ne deriva un’estensione del raggio di applicazione della norma verso condotte che, seppur apparentemente innocue, generano effetti intrusivi e disturbanti in ragione della pervasività del mezzo telematico. La dimensione digitale, infatti, amplifica l’immediatezza e la reiterabilità della comunicazione, trasformando la semplice notifica in un canale di pressione psicologica e di violazione della sfera personale.

Il valore sistematico della pronuncia risiede anche nel superamento di precedenti decisioni che avevano escluso la rilevanza penale di messaggi inviati tramite piattaforme social, in quanto disattivabili mediante le impostazioni del destinatario. L’odierna Cassazione, al contrario, pone l’accento sull’atto comunicativo in sé, non sulla sua eventuale neutralizzabilità, riconoscendo che la molestia si perfeziona nel momento in cui il mittente invade la quiete altrui, indipendentemente dall’adozione di contromisure. Tale lettura, sostenuta anche dalla più recente dottrina penalistica, riafferma il principio di personalità della responsabilità penale e contrasta il rischio di deresponsabilizzazione dell’agente nell’era digitale, ove la facilità del contatto può tradursi in abuso comunicativo.

Sotto il profilo politico-criminale, la sentenza assume una portata culturale significativa. Essa contribuisce a ridefinire il concetto di spazio privato digitale, riconoscendone la piena dignità giuridica. L’uso invasivo del telefono o delle applicazioni di messaggistica non è più un mero sconfinamento comunicativo, ma un atto idoneo a ledere la libertà personale e il diritto alla quiete psicologica. Si delinea così una linea di continuità tra tutela penale e diritti fondamentali, in particolare con il diritto all’autodeterminazione relazionale e al rispetto della vita privata, come riconosciuto dalle fonti sovranazionali. La molestia digitale viene, dunque, elevata a paradigma della responsabilità comunicativa contemporanea, in cui la libertà di espressione incontra il limite invalicabile del consenso dell’altro.

La sentenza n. 32770/2025, letta in combinazione con le riflessioni dottrinali e mediatiche successive, segna un cambio di paradigma: la libertà di messaggiare non coincide con la libertà di invadere. L’ordinamento, attraverso l’art. 660 cod. pen., riafferma che la comunicazione, se priva di reciprocità, cessa di essere dialogo e diviene intrusione. In tal modo, la Corte di cassazione adegua la tradizione penalistica alla realtà digitale, affermando che il diritto alla quiete non può essere subordinato alla capacità tecnica della vittima di difendersi, ma alla responsabilità dell’agente di non oltrepassare il confine del rispetto. Il principio che ne scaturisce è chiaro: nella società iperconnessa, il silenzio è un diritto, e chi lo viola ne risponde non solo eticamente, ma giuridicamente.

Lo stesso elaborato anche su studiocervellino.it