Diritto di Famiglia

La qualificazione del coniuge non proprietario tra detenzione qualificata e assenza di diritto all’indennità per migliorie: note a Cass., ord. n. 28443/2025

Avv. Francesco Cervellino

11/3/2025

L’ordinanza n. 28443 del 27 ottobre 2025 della Corte di cassazione offre un significativo contributo all’evoluzione della nozione di possesso e di detenzione qualificata nell’ambito dei rapporti familiari, precisando i limiti entro cui può essere riconosciuto al coniuge non proprietario un diritto di rimborso o di indennità per le spese sostenute sul bene dell’altro coniuge. La pronuncia si inserisce nel solco di un consolidato orientamento volto a superare la tradizionale distinzione rigida tra possesso e detenzione, adattando tali categorie alle peculiarità delle relazioni familiari, caratterizzate da vincoli di solidarietà e da un uso comune dei beni.

L’occasione processuale trae origine da una controversia nella quale un coniuge aveva eseguito, a proprie spese, lavori di miglioria su un immobile di proprietà esclusiva dell’altro, adibito a casa familiare, rivendicando poi il diritto all’indennità per l’aumento di valore del bene o, in subordine, il rimborso delle somme impiegate. La Corte territoriale aveva negato tali pretese, ritenendo che l’intervento fosse avvenuto nell’ambito di un mero rapporto di detenzione e non di possesso. La Cassazione ha confermato tale impostazione, ribadendo che l’articolo 1150 del Codice civile, che disciplina l’indennità spettante al possessore di buona fede per le migliorie apportate, non può essere applicato analogicamente al detentore qualificato, neppure quando la detenzione si fonda su un vincolo familiare.

La pronuncia valorizza la distinzione concettuale tra possesso, inteso come esercizio del potere di fatto sul bene con l’intenzione di tenerlo come proprio (animus possidendi), e detenzione qualificata, che si configura invece quando l’utilizzo del bene avviene in forza di un titolo che riconosce la proprietà altrui. Nel contesto matrimoniale, il coniuge che utilizza l’immobile dell’altro in quanto casa familiare non assume la qualità di possessore, bensì quella di detentore qualificato, titolare di un diritto personale di godimento di natura atipica, radicato nel rapporto coniugale. Tale qualificazione, secondo la Corte, è incompatibile con il riconoscimento di un diritto all’indennità o al rimborso per le spese sostenute, in quanto l’articolo 1150 c.c. ha carattere eccezionale e non ammette interpretazioni estensive o analogiche.

La decisione si colloca in continuità con le pronunce precedenti che, dapprima con riferimento alle convivenze more uxorio e poi ai rapporti coniugali, hanno elaborato la figura della detenzione autonoma di carattere qualificato. Già le Sezioni Unite del 2002 avevano chiarito che il coniuge non proprietario non può essere considerato possessore del bene adibito a casa familiare, in quanto l’utilizzazione deriva da un titolo giuridico di origine familiare e non da un comportamento di signoria sul bene. La Corte ha poi esteso tali principi alla convivenza di fatto, configurando un diritto di godimento che, pur riconosciuto e protetto, non comporta effetti restitutori o indennitari alla cessazione del rapporto. L’ordinanza in commento ribadisce questa impostazione, confermando l’unitarietà del quadro interpretativo.

Sotto il profilo sistematico, la Cassazione afferma che la natura personale e familiare del titolo di godimento esclude la possibilità di configurare un rapporto obbligatorio autonomo fondato sul rimborso delle spese. L’eventuale apporto economico di un coniuge al bene dell’altro deve essere letto, piuttosto, come espressione dei doveri di collaborazione e di contribuzione che discendono dal matrimonio, e non come fonte di un diritto creditorio. Ne deriva che le spese sostenute per migliorie o ampliamenti dell’immobile comune o di proprietà esclusiva dell’altro coniuge non possono essere oggetto di ripetizione, a meno che non sia intervenuto un accordo specifico e distinto dal vincolo familiare.

Particolarmente rilevante è l’estensione della motivazione anche ai profili di buona o mala fede del coniuge che ha eseguito le migliorie. La Corte ha osservato che la qualificazione soggettiva del detentore è irrilevante ai fini dell’applicazione dell’articolo 1150 c.c., poiché il presupposto indefettibile per l’indennità è la titolarità di un possesso. In assenza di tale presupposto, non è configurabile neppure un diritto al rimborso delle spese, indipendentemente dalla consapevolezza o meno dell’altruità del bene. La pronuncia sottolinea inoltre che, nel caso di specie, la conoscenza della proprietà altrui e la diffida alla restituzione del bene avevano comunque escluso ogni ipotesi di buona fede.

La sentenza si presta a ulteriori considerazioni in chiave sistematica. Essa riafferma la funzione equilibratrice del diritto di famiglia, che tutela il contributo del coniuge non proprietario attraverso il regime patrimoniale prescelto (comunione o separazione dei beni) e attraverso i meccanismi di solidarietà economica, ma non mediante strumenti propri del diritto reale. In tal modo, la Corte evita sovrapposizioni tra le discipline del possesso e dei rapporti familiari, mantenendo la coerenza del sistema. Tuttavia, il rigore dell’impostazione solleva interrogativi circa la tutela effettiva di chi, in buona fede, abbia investito risorse significative su un bene altrui, in un contesto di vita comune fondato sulla fiducia reciproca.

L’ordinanza n. 28443/2025 consolida un orientamento giurisprudenziale ormai stabile: il coniuge non proprietario, pur avendo contribuito economicamente al miglioramento dell’immobile dell’altro, non può vantare diritti indennitari o restitutori, poiché la sua posizione giuridica si qualifica come detenzione e non come possesso. Tale ricostruzione, coerente con i principi del diritto civile e con la specificità dei rapporti familiari, rafforza la distinzione tra diritti reali e rapporti personali di godimento, ponendo un limite netto all’estensione delle tutele previste per il possessore di buona fede.

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