Diritto dell'economia e dell'impresa
La non automatica responsabilità penale dell’amministratore di diritto tra principio di personalità e posizione di garanzia
Avv. Francesco Cervellino
10/31/2025


La recente pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza n. 35587/2025) offre un’occasione significativa per riflettere sul rapporto tra la posizione formale di amministratore di diritto e la responsabilità penale derivante da condotte illecite commesse nell’ambito societario. La decisione, che conferma l’assoluzione di un amministratore imputato per truffa e falso documentale, ribadisce con forza l’impossibilità di configurare una responsabilità automatica in capo al titolare della carica, in assenza di un concreto contributo causale o psicologico alla realizzazione del reato. Essa si inserisce nel solco di un orientamento ormai consolidato che riafferma la centralità del principio di personalità della responsabilità penale, in contrapposizione a ogni concezione oggettiva fondata sulla mera titolarità della funzione.
Il contesto normativo di riferimento è delineato dagli articoli 2392 e 2476 del codice civile, che disciplinano la responsabilità degli amministratori per violazione dei doveri inerenti alla carica, nonché dagli articoli 40 e 110 del codice penale, in tema di concorso di persone nel reato e di omissione. L’intersezione tra diritto penale e diritto societario evidenzia la duplicità della posizione dell’amministratore: da un lato, egli è investito di una posizione di garanzia che impone l’obbligo di vigilare sul corretto andamento della gestione; dall’altro, tale obbligo non può trasformarsi in una presunzione di colpevolezza per ogni illecito compiuto da soggetti che esercitano di fatto i poteri gestori.
La Cassazione, nella sentenza in esame, respinge la tesi avanzata dalle parti civili secondo cui la mera qualifica formale di amministratore di diritto comporterebbe la responsabilità per le condotte illecite poste in essere dal commercialista o da soggetti che, di fatto, gestivano l’impresa. Il Collegio sottolinea che la responsabilità penale richiede la verifica di un contributo concreto, materiale o morale, alla realizzazione dell’illecito. L’amministratore formale, pur rivestendo una posizione di garanzia, non può essere ritenuto ipso iure responsabile della truffa o del falso documentale commessi da altri, se manca la prova del dolo o della consapevole partecipazione alla condotta criminosa.
La decisione si colloca in linea con precedenti consolidati della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la posizione di garanzia non implica, di per sé, una responsabilità per omesso impedimento dell’evento qualora l’amministratore non abbia avuto conoscenza o possibilità di intervenire in tempo utile. L’accertamento deve dunque fondarsi su una valutazione concreta della partecipazione soggettiva, considerando la complessità organizzativa dell’ente e la ripartizione effettiva delle funzioni. Ciò è particolarmente rilevante nelle ipotesi in cui la gestione dell’impresa sia, di fatto, esercitata da altri soggetti, spesso familiari o consulenti contabili, come accade nei casi di amministratori di diritto testa di legno, figura che la giurisprudenza ha da tempo identificato quale schermo formale di amministrazioni di fatto.
Il ragionamento della Corte si fonda su una duplice distinzione. Da un lato, si ammette che l’amministratore di diritto, in virtù della propria posizione, possa incorrere in una responsabilità civile o amministrativa qualora non adempia ai doveri di vigilanza e controllo imposti dalla legge. Dall’altro, si esclude che tale posizione possa di per sé integrare l’elemento soggettivo del reato di truffa o di falso documentale, i quali presuppongono l’intenzione di ingannare e di conseguire un profitto ingiusto mediante artifici o raggiri. La mancanza di un nesso di causalità psichica tra la condotta dell’amministratore e l’evento illecito impedisce l’imputazione penale, pur potendo residuare un profilo di colpa in vigilando rilevante sul piano civilistico.
Particolarmente significativa appare la valorizzazione del principio di personalità della responsabilità penale, sancito dall’articolo 27 della Costituzione. Tale principio esclude qualsiasi forma di responsabilità oggettiva e impone che l’attribuzione del reato avvenga sulla base di un accertamento individualizzato della condotta e dell’elemento soggettivo. La Corte ricorda come il diritto penale non possa essere utilizzato per supplire a carenze di controllo interno o per punire la mera inerzia gestionale, a meno che non sia dimostrato un dolo specifico o un contributo consapevole all’illecito.
La pronuncia rafforza inoltre l’idea di una netta separazione tra i profili di responsabilità civile e quelli penali dell’amministratore. Se sul piano civilistico l’inosservanza dei doveri di diligenza, vigilanza e correttezza può comportare il risarcimento del danno verso la società o i terzi, sul piano penale è necessario un quid pluris, rappresentato dalla prova dell’intenzionalità o del concorso nella condotta delittuosa. Ne consegue che l’amministratore di diritto può essere chiamato a rispondere penalmente solo quando la sua condotta omissiva sia funzionalmente connessa alla produzione dell’evento illecito e accompagnata da consapevolezza della condotta altrui.
Da un punto di vista sistematico, la sentenza contribuisce a delimitare il perimetro della responsabilità penale nelle organizzazioni societarie complesse, evitando derive oggettivistiche e garantendo la coerenza con i principi costituzionali. Essa ribadisce la necessità di un accertamento individualizzato, incentrato non sulla qualifica formale, ma sull’effettivo ruolo svolto e sull’incidenza causale della condotta. Tale impostazione appare coerente con l’evoluzione dottrinale che tende a distinguere la responsabilità penale personale da quella da posizione, riaffermando il primato del principio di colpevolezza e la funzione di extrema ratio del diritto penale.
La decisione invita a un ripensamento delle dinamiche di governance societaria, sollecitando una più rigorosa distinzione tra amministrazione di diritto e di fatto e una maggiore attenzione alla trasparenza delle deleghe operative. Laddove la gestione effettiva sia esercitata da terzi, l’amministratore formale dovrà dimostrare di aver predisposto adeguati strumenti di controllo e di aver agito con la diligenza richiesta, onde evitare responsabilità civilistiche. Sul piano penale, tuttavia, l’imputazione continuerà a richiedere un nesso concreto tra condotta e evento, in ossequio al principio di personalità che resta pilastro irrinunciabile dell’ordinamento penale.
Lo stesso elaborato anche su studiocervellino.it
