Diritto dell'economia e dell'impresa

Il sequestro preventivo dell’unica abitazione nei reati tributari: limiti, principi e prospettive sistematiche

Avv. Francesco Cervellino

10/24/2025

La pronuncia n. 34485 del 2025 della Corte di cassazione, terza sezione penale, offre un rilevante contributo ricostruttivo in materia di sequestro preventivo e confisca del profitto nei reati tributari, con particolare riguardo alla possibilità di sottoporre a vincolo l’unica abitazione dell’indagato. L’occasione processuale nasce dal ricorso proposto contro un decreto di sequestro avente ad oggetto beni immobili e mobili intestati anche a terzi, disposti nell’ambito di un procedimento per dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, di cui all’articolo 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000.
Il caso consente di affrontare due profili centrali: la legittimazione dell’indagato non proprietario del bene a proporre istanza di riesame del sequestro preventivo e la questione, più ampia, dell’eventuale impignorabilità o non confiscabilità dell’unico immobile di proprietà, in applicazione del limite previsto dall’articolo 76, comma 1, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973.

Sotto il primo profilo, la Corte ribadisce che la legittimazione dell’indagato a impugnare un provvedimento di sequestro non presuppone automaticamente la titolarità del bene, ma richiede la dimostrazione di un interesse concreto e attuale collegato agli effetti del vincolo sulla sua posizione giuridica. Tale principio, espresso dalle Sezioni Unite con l’informazione provvisoria n. 15 del 2025, segna un punto di equilibrio fra il diritto di difesa dell’indagato e la necessità di evitare un uso strumentale delle impugnazioni in assenza di un interesse sostanziale. Il criterio dell’interesse concreto, infatti, valorizza la funzione oggettiva del riesame come rimedio a tutela di posizioni effettivamente incise dal vincolo cautelare, garantendo coerenza sistematica con l’articolo 322 del codice di procedura penale.
Nel caso esaminato, la Corte ha escluso tale interesse, ritenendo che l’indagato avesse dedotto unicamente la volontà di ottenere la restituzione di beni formalmente appartenenti a terzi, senza dimostrare una diretta incidenza del sequestro sulla propria sfera giuridica. Ne è derivata la conferma dell’orientamento restrittivo, secondo cui l’interesse all’impugnazione deve essere reale e non meramente riflesso.

Ben più ampio rilievo sistematico riveste, tuttavia, il secondo tema affrontato dalla decisione: la possibilità di estendere, ai fini penali, il limite all’espropriazione immobiliare previsto per la riscossione tributaria dall’articolo 76 del d.P.R. n. 602/1973. La disposizione, nella formulazione introdotta dal decreto-legge n. 69 del 2013, prevede che l’agente della riscossione non possa procedere all’espropriazione dell’unico immobile di proprietà del debitore, adibito ad uso abitativo e nel quale egli risieda anagraficamente. La ratio è chiaramente quella di salvaguardare il diritto all’abitazione del contribuente, riconosciuto dall’ordinamento come esigenza primaria di tutela sociale.

La giurisprudenza penale, tuttavia, ha costantemente circoscritto tale garanzia al solo ambito tributario. La Corte di cassazione, nel solco di precedenti consolidati (sentenze n. 8995/2019, n. 30342/2021, n. 5608/2021), ha affermato che la norma non pone un principio generale di impignorabilità dell’unica casa, ma una regola speciale riferita alle esecuzioni promosse dal fisco per debiti tributari. Tale limitazione non può essere estesa alla confisca penale, diretta o per equivalente, poiché oggetto di quest’ultima non è il debito verso l’Erario, ma il profitto del reato, che costituisce la causa giustificativa dell’ablazione patrimoniale.

L’argomento centrale risiede nella diversa funzione dei due istituti. L’espropriazione tributaria mira alla riscossione coattiva di un credito erariale e, dunque, rientra nella logica civilistica della responsabilità patrimoniale. La confisca penale, invece, persegue finalità eminentemente sanzionatorie e preventive, volte a sottrarre al reo il vantaggio economico del reato, secondo la previsione dell’articolo 240 del codice penale e dell’articolo 322-ter per i reati contro la pubblica amministrazione, nonché degli articoli 12-bis e 1, comma 143, della legge n. 244 del 2007 per i reati tributari.
Ne consegue che la garanzia dell’abitazione, posta dal legislatore fiscale, non incide sul potere penale di ablazione patrimoniale, il quale opera indipendentemente dalla natura del bene e dalla sua destinazione a uso abitativo. Tale impostazione trova ulteriore fondamento nel principio generale dell’articolo 2740 del codice civile, secondo cui il debitore risponde con tutti i propri beni presenti e futuri, salvo i casi di limitazione espressamente previsti dalla legge. Poiché nessuna disposizione stabilisce un’esclusione in materia penale, il sequestro preventivo dell’unica casa risulta legittimo anche quando l’immobile rappresenti l’abitazione principale dell’indagato.

La dottrina, tuttavia, non ha mancato di sollevare rilievi critici rispetto a questa interpretazione, evidenziando il rischio di una disparità di trattamento tra sfera fiscale e sfera penale e, più in generale, la tensione con il principio costituzionale di tutela del diritto all’abitazione, quale proiezione del diritto inviolabile alla dignità personale. Parte della riflessione ritiene infatti che la ratio umanitaria sottesa alla norma tributaria possa, in via interpretativa, essere richiamata anche in ambito penale, quantomeno per temperare l’applicazione di misure ablative sproporzionate rispetto all’entità del profitto illecito.
La Cassazione, tuttavia, mantiene una linea rigorosa, riaffermando la prevalenza della funzione repressiva e dissuasiva della confisca rispetto alla protezione patrimoniale individuale, salvo il rispetto del principio di proporzionalità nella determinazione del quantum del sequestro, che deve essere limitato alla parte corrispondente al profitto del reato.

La sentenza in commento ribadisce dunque la netta separazione tra garanzie patrimoniali di derivazione fiscale e strumenti ablativi di natura penale, chiarendo che la nozione di “unico immobile di proprietà” non assume alcuna valenza limitativa nei confronti della confisca. Ciò comporta che anche un’abitazione in comunione, o comunque utilizzata come dimora principale, può essere oggetto di sequestro preventivo, purché nei limiti della quota riconducibile all’indagato e in misura proporzionata al profitto contestato.

Sotto il profilo sistematico, tale orientamento contribuisce a definire un quadro di maggiore certezza applicativa, ma solleva interrogativi sul bilanciamento tra esigenze di repressione e tutela dei diritti fondamentali. La sfida interpretativa futura consisterà nel conciliare la finalità punitiva dell’ablazione patrimoniale con la salvaguardia dei diritti inviolabili garantiti dagli articoli 2 e 42 della Costituzione, evitando che il principio di proporzionalità venga svuotato nella prassi esecutiva. In assenza di un intervento legislativo di coordinamento, l’equilibrio tra effettività della confisca e tutela dell’abitazione rimarrà affidato alla prudente valutazione del giudice, chiamato a garantire che il sacrificio patrimoniale non si traduca in una compressione eccessiva della dimensione personale del diritto alla casa.

Lo stesso elaborato anche su studiocervellino.it