Diritto dell'economia e dell'impresa
Il diritto del socio recedente nella società di fatto tra coniugi: profili sistematici e applicazioni dell’art. 2289 c.c.
Avv. Francesco Cervellino
11/5/2025


La sentenza n. 29036 del 3 novembre 2025 della Corte di Cassazione rappresenta un significativo momento di chiarificazione sul tema del recesso e della liquidazione della quota nella società di fatto tra coniugi, offrendo un contributo sistematico di rilievo alla distinzione tra recesso del singolo socio e scioglimento della società, con importanti ricadute sul diritto agli utili non percepiti e sulla qualificazione giuridica del rapporto economico instaurato in ambito familiare.
La Suprema Corte muove dal presupposto, consolidato in giurisprudenza, secondo cui la società di fatto costituisce una figura pienamente riconducibile al genus delle società semplici, ai sensi dell’art. 2297 del codice civile, qualora manchi una formale costituzione ma si realizzi una stabile comunione di intenti economici e di mezzi. In tale contesto, la collaborazione tra coniugi nell’esercizio di un’attività d’impresa non implica necessariamente l’esistenza di una società, ma impone di verificare, caso per caso, la sussistenza dell’affectio societatis e del comune intento di conseguire risultati patrimoniali condivisi.
Nell’ambito dei rapporti familiari, la Corte ribadisce la necessità di distinguere tra le diverse forme di impresa riconosciute dal legislatore. L’azienda coniugale, l’impresa individuale gestita da uno dei coniugi, l’impresa familiare e la società di fatto sono istituti distinti, ciascuno dotato di presupposti e regole proprie. L’errore interpretativo del giudice di merito nel caso di specie è stato quello di confondere il venir meno dell’affectio societatis con una causa automatica di scioglimento della società ex art. 2272, n. 2 c.c., mentre la domanda proposta da uno dei coniugi era, in realtà, un esercizio del diritto di recesso ai sensi dell’art. 2289 c.c.
La Corte di Cassazione, muovendosi in un solco coerente con l’orientamento già espresso in precedenza, ha ribadito che il recesso di un socio, anche in una società composta da soli due soci, non determina di per sé lo scioglimento della società, ma solo la cessazione del rapporto sociale limitatamente al socio recedente. Lo scioglimento dell’intera compagine può intervenire solo se la pluralità dei soci non viene ricostituita entro sei mesi, come previsto dall’art. 2272, n. 4, c.c. In tal modo, la Suprema Corte riafferma la distinzione concettuale tra lo scioglimento della società e lo scioglimento del rapporto sociale, superando l’erronea sovrapposizione tra i due piani.
Di particolare rilievo è il chiarimento concernente la decorrenza del diritto alla liquidazione della quota e la spettanza degli utili. La Corte ha individuato il momento costitutivo del recesso nella manifestazione unilaterale della volontà del socio, configurandolo come atto unilaterale recettizio, che produce effetto al momento della comunicazione al socio restante. Da tale momento, il socio recedente perde lo status socii e il diritto agli utili successivi, ma acquisisce il diritto alla liquidazione della quota sulla base della situazione patrimoniale della società alla data del recesso.
Il principio di diritto affermato dalla sentenza si articola su due piani distinti ma complementari. In primo luogo, viene riconosciuto che la liquidazione della quota ex art. 2289, comma 2, c.c. deve essere effettuata con riferimento alla situazione patrimoniale esistente al momento dello scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio recedente, e non già a quella esistente al momento della cessazione di fatto della collaborazione. In secondo luogo, la Corte afferma che il socio recedente conserva il diritto a percepire gli utili maturati e non percepiti fino alla data del recesso, compresi quelli derivanti da operazioni in corso, in conformità a quanto previsto dall’art. 2289, comma 3, c.c. Tale precisazione consente di estendere la tutela patrimoniale del socio uscente anche a quelle situazioni intermedie in cui gli utili, pur generati dall’attività sociale, non sono stati ancora distribuiti o formalmente contabilizzati.
Sul piano sistematico, la pronuncia contribuisce a definire un criterio equilibrato di delimitazione dei rapporti tra i coniugi impegnati in un’attività economica comune. Essa riafferma, da un lato, la natura autonoma della società di fatto, distinta dalle forme di comunione familiare dei beni o degli utili, e, dall’altro, garantisce la tutela del socio recedente, evitando che l’inerzia o la gestione esclusiva dell’altro coniuge possano determinare un ingiustificato arricchimento.
La Corte si sofferma inoltre sull’incidenza dell’allontanamento di uno dei soci dall’attività operativa. Tale circostanza, pur rilevante ai fini della quantificazione del conferimento e della misura degli utili spettanti, non comporta automaticamente lo scioglimento della società. L’assenza del socio recedente può infatti incidere sulla proporzione di partecipazione agli utili ai sensi dell’art. 2263 c.c., ma non priva il socio del diritto alla liquidazione della quota né degli utili maturati fino al momento del recesso formalizzato.
La sentenza in commento, oltre a risolvere un contenzioso di rilievo pratico, offre un contributo teorico importante al diritto societario e al diritto di famiglia. In un contesto in cui la linea di confine tra impresa familiare e società di fatto è spesso labile, la Cassazione delinea un perimetro interpretativo chiaro, fondato sul rispetto della volontà negoziale delle parti e sull’applicazione rigorosa delle norme codicistiche. L’elemento decisivo non è la mera partecipazione materiale all’attività, bensì la comune volontà di costituire un’organizzazione economica finalizzata alla produzione di utili condivisi.
Questa pronuncia potrebbe orientare la giurisprudenza di merito verso un approccio più sistematico e coerente in materia di società irregolari e familiari, valorizzando l’autonomia privata e i principi di buona fede nell’attuazione del vincolo societario. La Cassazione riafferma, in tal senso, che il diritto del socio recedente agli utili non percepiti e alla liquidazione della quota costituisce un corollario imprescindibile della tutela patrimoniale e della parità tra soci, anche quando il vincolo societario si inserisce in una relazione familiare.
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